domenica 1 marzo 2020

DOPO L'ALLUVIONE

alluvióne s. f. [dal lat. alluvio -onis, der. di alluĕre «bagnare»]. - Inondazione, straripamento di acque di fiumi, di torrenti, o piovane; anche, il periodo di piogge violentissime che provoca tale fenomeno - fig. Grande quantità, sovrabbondanza (spec. di cose brutte o spiacevoli).

Acqua fredda, torbida, melmosa. La bocca di due enormi rospi che risucchiano e masticano le gambe fino al ginocchio e più su: i mostri, quelli più disgustosi e nascosti, compaiono e prendono il sopravvento sulla ragione, quando ti ritrovi immerso in paura, rabbia e sconforto.
Sono stata travolta da una grande quantità di emozioni negative, da stati d’animo distruttivi che per osmosi sono penetrati nei tessuti fino in profondità e, raggiunto lo stomaco, si sono manifestati con quella sensazione…sì, quella sensazione che per un lapsus beffardo ho definito “farfalle nello stomaco”, facendo sorridere la terapeuta e che, correggendomi, ho battezzato “scarafaggi nello stomaco”, facendo inorridire la terapeuta.
Nulla è stato spazzato via, distrutto in un attimo, ma tutto era condannato ad una lenta agonia che lo avrebbe consumato in modo drammatico, sbriciolandolo o facendolo marcire. I ricordi, i punti fermi di un’esistenza tranquilla, forse banale, la stabilità mentale.
L’acqua è arrivata lentamente, procedendo inesorabilmente, trovando barriere e modi per superarle, aumentando esponenzialmente.
I quadri, le foto appese alle pareti, i soprammobili guardando dall’alto non capiscono, ma giudicano. Le prese di corrente, portatrici di energia, posizionate troppo in basso, sono le prime a soccombere. Anni di accumulo che partono da terra e puntano a raggiungere il soffitto, sono stati intaccati alle radici, il passato, e il rischio è che sprofondi tutto fino al presente.
Acqua statica ovunque, affascinante specchio per lampadari e soffitti, per cieli grigi solcati da elicotteri: l’immobilità dell’impotenza acquista sfumature poetiche.
Non avrei mai pensato che potesse succedere una cosa del genere.
E ora che faccio?
Abbasso il capo, lascio che l’acqua entri e raggiunga le prime vie aeree e l’anidride carbonica si sostituisca all’ossigeno, che lo stato di coscienza mi abbandoni, che si arresti il respiro e il cuore cessi di battere, che il cervello, privato di ossigeno, sia irrimediabilmente danneggiato, lascio che questa alluvione mi uccida.
Oppure?
Oppure mi metto in punta di piedi, alzo il mento e respiro … respiro ... respiro. E chiedo aiuto ad un medico specializzato che con medicinali e lunghe affettuose chiacchierate mi fornisce gli strumenti necessari: all’inizio è un cucchiaio, poi un secchio, poi ancora un’idrovora e infine il sole, e l’acqua torna a siti appropriati. Mentre riemergo, paura, rabbia, sconforto lasciano il posto a coraggio, serenità, consolazione. Lavoro fisico e mentale di ricostruzione e di ripristino di una situazione che non sarà più la stessa e che pertanto diventa costruzione a regola d’arte di un qualcosa che è nuovo, migliore.
Cancellati con la pittura i segni lasciati sul muro dal livello raggiunto dall’acqua, tutto ciò che era carta, cartoni, stoffe, elettrodomestici, tutto ciò che è stato marchiato mortalmente dal fango è finito in discarica. Il giardino vangato e seminato, presto si colora di verde e l’orto pretende amorevoli cure per ricambiare con i suoi frutti.
Nuovi capi di abbigliamento, una nuova acconciatura, il recupero di passioni troppo a lungo sacrificate, qualche follia e la consapevolezza che la fragilità mostrata è forza salvifica.
Passano gli anni, resta solo il ricordo. Talvolta è così grigio e così denso da segnare il viso, da togliere il fiato.
Acqua fredda, torbida, melmosa.
E ora che faccio?
Mi metto in punta di piedi, alzo il mento e respiro ... respiro ... respiro.

L'ALTRO NATALE

Ma cosa sta succedendo? È mai possibile? Cosa? Accidenti, è di nuovo tempo di andare in scena. Uffa, ho l'impressione che il tempo passi sempre più in fretta e non ho modo di riprendermi. Basta lamentarsi, sto per uscire e devo essere al meglio: il mio è un ruolo di responsabilità. Verifico se è tutto in ordine: nessun danno vistoso è stato riportato, nessuna ammaccatura. La vernice dorata è ancora perfetta e senza nessun graffio, le decorazioni, fini pennellate rosse, sono in ordine e l'unica sbavatura conseguenza dell'incidente di otto anni fa, continua a essere ben mimetizzata. È stata una vera fortuna che si siano accorti subito di quella perdita dal soffitto che aveva bagnato la mia scatola di legno rivestita in velluto, il mio nido sicuro dove vengo riposto ogni anno. Il contatto prolungato con l'acqua ha solo provocato questa singola sbavatura a livello della bombatura intermedia. La base non è mai stata scalfita, le scanalature lungo lo stelo, sono perfette e la punta svetta sottile, luccicante, come appena uscita dalla bottega del mastro vetraio. Una volta eravamo il frutto di un lavoro artigianale. Ora, anzi, da tempo ormai, quelli come me sono frutto di uno stampo in serie e sono di plastica. Ecco sono pronto. Stanno aprendo la scatola. Ma...chi è costui, non è la solita persona, colui che anno dopo anno con le sue mani forti, ma delicate mi estrae, mi osserva, mi controlla per vedere se è tutto in ordine e poi con tanto orgoglio mi mostra agli altri componenti della famiglia che, chi più e chi meno, sorridono, si compiacciono del mio stato e apprezzano le mie finiture. Un giovane un po’ arruffato con una grande croce sul giubbotto che indossa, sorride e delicatamente mi solleva. Mi mostra a una donna dal viso rugoso, pochi capelli candidi spettinati, crespi, che mi osserva attraverso occhi piccoli di un colore indecifrabile, acquosi. Le labbra raggrinzite assumono una smorfia, un sorriso che lascia intravedere gengive, solo gengive. È vestita con più maglie di lana di colori diversi e pure infeltrite: un affronto ai guru della moda, ma l’importante è che tengano caldo. Il ragazzo mi posiziona su un albero spelacchiato e poco addobbato che solo grazie alla mia presenza si può definire di Natale. Non so se potrà reggere il mio peso e soprattutto la mia importanza. L’anziana torna a mostrare le gengive e accarezza il viso del giovane, che a sua volta le prende le mani e le stringe fra le sue. Che scena, che emozione, che calore. Rimaniamo da soli: io in bilico su questo ramo rinsecchito, la donna a tavola davanti ad una scodella. Nessun’altra ricca decorazione, nessuna luce a intermittenza, nessun pacchetto, nessun camino, nessuno abito lussuoso, nessuna tavola imbandita. Solo io, l’anziana, una tazza di caffè e latte con i biscotti e la luce di un televisore che perde continuamente il segnale. Eppure lei mi guarda con…amore e mi sorride di nuovo senza denti, un bellissimo sorriso. Deve essere normale per lei questa condizione, la solitudine. Non c’è segno di altre presenze se non nelle foto, alcune in bianco e nero, attaccate con il nastro adesivo agli sportelli del mobile in formica che riempie la maggior parte della stanza principale di questo piccolo appartamento. Quelle foto raccontano la vita che le ha lasciato vistosi segni sul volto, sul corpo e nella mente. Segni che riemergono dalle acque profonde dei suoi occhi, solcano le aride pieghe delle guance e si materializzano in gocce di memoria. Questo non è il solito, ma un altro Natale, sia per me, puntale da albero di nobili origini, che finalmente prova un senso di completezza, sia per la mia ospite, donna sola e anziana, che per la prima volta da chissà quanto tempo ha trovato una ragione per sorridere e ricordare. Ed è finalmente un buon Natale.

VITA...MORTE...VITA

Mia cara amica,
prima di crollare per la stanchezza ti affido alcune riflessioni.
L'esperienza vissuta la scorsa notte, di cui ti ho già accennato, è stata dura, istruttiva e soprattutto mi ha ridato speranza.
Ho accompagnato Francesco in ospedale perché non stava bene, con qualche linea di febbre ed una profonda stanchezza. Visto il recente ricovero abbiamo pensato fosse meglio recarsi al pronto soccorso. L’ansia iniziale era tanta e la paura che fosse una ricaduta della malattia, con conseguente nuovo ricovero, era tale da rendere il respiro corto, cortissimo. Poi, dopo il primo colloquio col medico, è iniziata la fase “bolla” in cui stai lì, un po’ rassicurato perché comunque si stanno occupando del malato, lo hanno preso in carico ed inizia l’attesa. E ti guardi attorno e rifletti. Erano quasi le 21 ed in quel pronto soccorso, un gruppo di persone si è ritrovato, loro malgrado, accomunato da medie sofferenze: colica, bronchite, febbre e debolezza, incidente in motorino senza conseguenze. Malati, accompagnatori, medici, infermieri, os, ciascuno nel proprio ruolo. Ordinaria amministrazione con sottofondo musicale.
Poi, un battito di ciglia e tutto è cambiato: accompagnatori e pazienti a cui erano stati fatti i primi accertamenti sono stati “abbandonati”, parcheggiati sulle barelle e sulle sedie a rotelle, i medici e gli infermieri sono spariti. Sono rimasti solo gli os che vagando cercavano di rendersi utili sistemando e riordinando.
La musica in sottofondo è cessata.
Sono arrivati due codici rossi. Silenzio ed attesa. Quasi apnea.
Poco prima di mezzanotte un urlo straziante di donna ha squarciato il silenzio. Nessuno di noi, che eravamo in attesa, parlava ed i movimenti erano rallentati. Ogni tanto ci guardavamo negli occhi e non c’era bisogno di dire niente. Ancora attesa. Silenziosa e composta attesa: nessuno lo ha detto, ma era molto chiaro quanto era successo. Ancora attesa.
Ormai era giunta la prima ora della notte, l’ora che ho sempre sentito come la più sofferente: si porta dietro tutto il fardello della giornata appena trascorsa e ha l’onere di iniziarne una nuova. E’ ricomparso il medico responsabile del pronto soccorso ed è ripresa l'attività.
Il commento dei risultati degli accertamenti è stato accompagnato da chiacchiere rassicuranti e qualche battuta. Prima di essere accomiatati c’è stato tempo per un momento di … leggerezza (strano definirlo così) in cui il dottore ha ucciso una mosca al volo, con gelida precisione ed ironicamente si è autoincensato per questa sua capacità.
Un medico che ha svolto il suo lavoro ed ha trasmesso scrupolosità ed umanità, ecco le sue capacità.
Un’ora prima ha dovuto dire alla madre di un ragazzo di 16 anni che i soccorritori hanno fatto tutto il possibile, ma era giunto in pronto soccorso già privo di vita.
E ai famigliari di una ragazza di 21 anni ha dovuto dire che le sue condizioni erano critiche e che avrebbero fatto tutto il possibile per farla stare meglio.
Vita e morte. Non le avevo mai percepite in modo così distinto e così intrecciato.
La musica di sottofondo non è più ripresa. La mia speranza sì: ho trovato vita proprio dove c’è morte.
Nonostante le ripetute frequentazioni di ospedali in quest’ultimo periodo, per la prima volta mi sono sentita così coinvolta, così inebriata senza bere, così euforica senza prendere alcuna sostanza. Ho solo assunto tanta umanità.
Buona notte.


domenica 1 novembre 2015

VIVENDO NELL'ATTESA – quarta ed ultima parte

Quanta vita. Quante vite scorrono davanti ai miei occhi, davanti agli occhi di tutti. Ho iniziato per caso mentre annaspavo nell'attesa. Ora potrei andare avanti a provare a leggere gli altri all'infinito. Potrei soffermarmi sul barbone che in un angolo della piazza vive una battaglia interiore: vorrebbe che qualcuno si fermasse a parlare con lui del più e del meno. Un vecchio amico che, senza farglielo pesare, gli offrisse un caffè, magari corretto, giusto per scaldarsi un po', per togliere di dosso quell'umido, scomodo regalo delle notti trascorse all'aperto. Ma vorrebbe anche che nessuno si accorgesse di lui, che nessuno gli rivolgesse quegli sguardi tra il pietoso e il disgustato per il tipo di vita che si trova a vivere un po' per scelta, un po' per mancanza di alternative. Potrei provare a sentire i pensieri della suora, così minuta da sembrare una bambina travestita, che a velocità impressionante sta attraversando la piazza per raggiungere il convento. Forse è in ritardo per la messa. Forse fugge dalle tentazioni. Un passo, un pensiero veloce, subito rimpiazzato da un altro passo, un altro pensiero veloce. Potrei concentrarmi sull'uomo con il cappello che mi ha introdotto a questo viaggio nella varietà umana: la guerra è appena finita e la voglia di ricominciare a vivere è tangibile, sovrasta il dolore, le montagne di macerie. Spinge un giovane con un cappello, un panama candido sopravvissuto al disastro mondiale, a frequentare una delle più belle piazze del mondo ed avvicinare le ragazze che in fretta, a coppie, vanno a prendere l'acqua ancora razionata, dalla fontana vicino alla chiesa. Solo qualche anno più tardi quella stessa eleganza che lo contraddistingue oggi, lo avrebbe portato, sempre in quella piazza, ad avvicinare turiste straniere ben disposte, inebriandole con fascino, cultura, con la complicità della città e di un po' di vino bianco: un tuffo nella dolce vita. Molti anni più tardi, sempre quell'eleganza avrebbe attirato l'attenzione di una anima solitaria, diffidente, ma curiosa, discreta e rispettosa, staffetta ideale a cui affidare il testimone di una non ben definitiva pratica antica e ormai fuori moda: fermarsi, osservare, ascoltare, cercare di capire, immaginare, fantasticare.

"Scusa, scusa, scusa, ma questo mostriciattolo pestifero, bello di mamma sua, ha deciso di farmi impazzire: prima ha voluto fare un riposino e di solito non fa mai, poi non si voleva preparare, poi aveva fame, quindi si è sporcato con la merenda e mi è toccato cambiarlo. E fosse finita qui! L'autobus non passava mai e abbiamo deciso di raggiungerti a piedi. Ma non andiamo a sbagliare strada? Certo che potrebbero mettere qualche cartello in più. Ho chiesto informazioni ad una signora anziana, ma non riuscivo a capire una parola: pija de là, vorta de qua, arigirate dopo er ponte..."

E' finita l'attesa. La mia cara e scombinatissima amica è arrivata trascinandosi dietro quel diavoletto travestito da cherubino del figlio. Mi travolge con tante, davvero tante parole che sguinzaglia in libertà a riempire aria e mente, riportandomi qui, ora. Faccio fatica a seguirla, ma non importa, non mi dispiace ascoltarla ed assecondarla. Credo andrà avanti a lungo incoraggiata dal sorriso che non riesco a togliermi dalla faccia, un sorriso che esprime quanto sia finalmente rilassata e tranquilla, disponibile: ho scoperto che mi piace aspettare. Mi piace aspettare seduta ad un tavolino. Da sola.

venerdì 25 settembre 2015

VIVENDO NELL'ATTESA – terza parte

Cioccolato fondente: gli occhi del cameriere scrutano la piazza controllando ogni movimento. Vuole essere sicuro di individuarla subito, di non perdere nemmeno un secondo di ogni suo movimento. Il piede, nervosamente, batte il tempo dell'ultimo brano che ha iniziato a provare con il gruppo ieri sera, anzi ieri notte. Stanno provando tutte le notti come se fosse l'ultima: si ritrovano alla fine della giornata, qualcuno dopo aver lavorato come cameriere o come operaio, qualcuno dopo aver macinato chilometri cercando un lavoro, uno dopo aver studiato fino a non poterne più, fino a non vederci più. Provano e riprovano i brani, cover e originali, che suoneranno questa estate in giro tra feste varie e sagre. Non è il massimo, ma è un inizio. E' quella che chiamano gavetta, che permetterà loro di fare esperienza e anche di guadagnare qualche soldo. Il gruppo, The Fight: la battaglia che ognuno di loro affronta ogni giorno, la battaglia che quelli che li ascolteranno combattono ogni giorno, la battaglia che una ragazza sta perdendo ogni giorno un po', facendo più fatica a respirare, a camminare, a vivere. Ma quella bastarda, la malattia, non può impedire alla ragazza di fare un giro in una delle più belle piazze del mondo, né di raggiungere il bar con i tavolini all'aperto dove lavora quel cameriere dagli occhi cioccolato fondente.
Cioccolato fondente fuso: lei ha appena fatto la sua comparsa nella piazza con il suo passo incerto su quei sandali tanto, troppo colorati, su quelle gambe scheletriche fasciate da pantaloni gialli. Di sicuro non vuole nascondersi, né passare inosservata: completano il suo abbigliamento una casacca fucsia ed un ampio foulard azzurro, a coprirle la testa ormai completamene calva, i cui lembi annodati le scendono lungo la schiena. Azzurro come i suoi occhi, troppo grandi su un viso troppo piccolo. Il cameriere rimane fermo nella sua posizione, fermo a presidiare l'accesso ai tavolini, pronto a scattare nel caso di arrivo di nuovi clienti o di chiamata dal bancone, eppure concentrato su quell'esile, coloratissima figura che svoltando da dietro la chiesa sta avanzando lievemente, lentamente verso il bar, verso di lui. Il sorriso gentile del cameriere si è trasformato in una smorfia a labbra strette, a soffocare un moto di rabbia, di dolore. Ha paura che ogni passo sia troppo per lei, ha paura che non riesca ad arrivare fino a lui. Sbuffa dalle narici un respiro doloroso, lo stesso che accompagna lei ad ogni passo. L'impeto violento vorrebbe scagliarsi su qualcosa, qualcuno che crollasse sotto i colpi furibondi o addirittura, sì, che glieli restituisse con maggiore potenza e finalmente annientasse, lui e lei, ponendo fine a questa tortura disumana che li sta consumando con feroce lentezza.
Cioccolato fondente fuso, caldo e zuccherato: ce l'ha fatta. La ragazza ed il suo foulard sono arrivati fino all'entrata del bar con i tavolini all'aperto, dove un cameriere gentile è pronto ad accogliere la clientela. Non hanno bisogno di dirsi niente, si guardano in silenzio e sorridono l'uno all'altro. Non si toccano ma, se solo qualcuno si soffermasse ad osservare questa scena di amore puro, potrebbe vedere realizzarsi davanti ai propri occhi la fusione dei loro pensieri, dei loro sentimenti, cuori e anime: coinvolgente, appagante...calda e zuccherata.        (continua)

venerdì 12 giugno 2015

NELL'ATTESA - seconda parte

Padre e madre, giovani e sportivi, due bambine ed un bambino tra i sette ed i dieci anni, tutti curiosità ed energia irrefrenabile. Sono tutti e cinque ugualmente biondi, ugualmente con la pelle arrossata sul naso e con un totale di dieci occhi che sembrano fabbricati in serie, in un momento di eccesso di disponibilità di colore azzurro. Abbigliamento comodo e stropicciato, sandali e zainetti: inequivocabile la provenienza dal nord Europa. Olanda o magari Danimarca. Si sono fermati a leggere il menù esposto ed è chiaro che la parte che interessa maggiormente è quella dei prezzi. Gli adulti si scambiano poche parole ed un'espressione di nostalgia vela gli occhi della donna. La mente corre alla famiglia di origine, facoltosa e con qualche antenato nobile da parte di suo padre. Durante il suo primo soggiorno in Italia, con i suoi genitori, a Roma alloggiava in un hotel proprio qui vicino, vicino Piazza Navona e tante volte si erano fermati in questo caffè per una colazione o un aperitivo. All'università aveva incontrato quel ragazzo tutto impegno ed anticonformismo. Un moto di ribellione e la paura di diventare come sua madre, un bel trofeo da mostrare, le aveva fatto prendere la decisione di abbandonare la famiglia e di seguire quel ragazzo dagli ideali così semplici e così forti, da riuscire a penetrare sotto pelle e nel cervello. Nel giro di poco avevano deciso di costruire una famiglia, di finire gli studi e di vivere con le loro sole forze. Lei aveva dovuto rinunciare alle comodità, al denaro dei genitori, ad ogni privilegio. Erano riusciti in tutto: tre bambini belli e sani, laurea in bioarchitettura per lui ed in geologia per lei, un lavoro ben remunerato e che permetteva loro, talvolta, di collaborare ottimizzando i tempi e sfruttando una ben collaudata sintonia. Potevano permettersi una vacanza in Italia e avrebbero potuto permettersi anche un gelato al tavolino di quel lussuoso bar, ma lei, uscendo dalla nuvola di nostalgia in cui si era momentaneamente persa, decide di restare fedele a quanto ha scelto. Ha scelto la semplicità di un cono gelato mangiato seduta sul bordo di una fontana in una delle più belle piazze del mondo, accanto all'uomo che ogni giorno rende quella scelta la migliore, guardando i tre figli che si sporcano tra il gelato che si scioglie e gli schizzi dell'acqua che zampilla dalle sculture seicentesche.
Una vibrazione mi scuote e mi distoglie da quel quadro contemporaneo, ma denso di valori antichi: il cellulare.
"Scusami, ti prego scusami, non so come farmi perdonare, ma troverò il modo, sto arrivando, cercherò di fare prima che posso è solo che..." E' la mia amica, la ritardataria. Mi sta dicendo che sta arrivando, ma so che questo significa che sta accumulando ritardo su ritardo.
"Ok Ti aspetto. A dopo!" Chiudo la telefonata senza neanche ascoltarla, tanto mi inonderà con le sue mille disavventure quando arriverà.
"Ecco la sua ordinazione, signora." Guardo il cameriere e gli rivolgo un sorriso di vera gratitudine. "Grazie. E' davvero molto gentile." Lui si ferma un istante, forse la cosa lo ha insospettito o infastidito. No, è stupito da tanta gentilezza, in fondo prima lo avevo trattato in modo un po' brusco. "Prego. A sua disposizione." Ricambia il sorriso, in particolare lo ricambia con gli occhi e con andatura leggera si avvia a presidiare l'accesso ai tavolini, pronto a scattare nel caso di arrivo di nuovi clienti o di chiamata dal bancone. O forse sta aspettando qualcuno.                 (continua)

martedì 2 giugno 2015

NELL'ATTESA - prima parte


Odio aspettare. Odio aspettare seduta ad un tavolino. Da sola. Sembro una sfigata: in un luogo così bello e da sola. Dovrei mettere un cartello: “Non sono sola. Sto aspettando un'amica che come al solito è in ritardo!” Anche qui, anche in questa breve vacanza a Roma, riesce ad essere in ritardo. Sono in Piazza Navona, seduta al tavolino di un pittoresco bar, dovrei fregarmene di tutto e godermi il momento, invece sono completamente assorbita dalla sensazione di imbarazzo che mi provoca lo stare da sola ad aspettare. Devo fare qualcosa, devo fare qualcosa, devo fare...cosa?
Prego signora, vuole ordinare?” Ci si mette anche il cameriere.
Veramente stavo aspettando un'amica.” Perchè ho l'impressione che abbiano acceso un falò sotto la mia poltroncina?
E non c'è niente di meglio che aspettare un'amica sorseggiando qualcosa, signora.” Adesso mi alzo e me ne vado.
Va bene, allora mi porti un prosecco ed un'acqua tonica con limone e senza ghiaccio. Grazie.”
Insieme?”
Sì. Ho molta sete. Grazie.” E soprattutto con due ordinazioni al tavolo sembrerò in compagnia, tiè!
Calma, mi devo calmare, respirare lentamente e profondamente, è tutto sotto controllo. Ora riapro gli occhi e...mi sta fissando. Un uomo mi sta fissando. Ha gli occhiali da sole, ma lo so che mi sta guardando. Sembra uscito da una foto degli anni 40 che improvvisamente ha acquistato colore. E' vestito elegantemente, con pantaloni color sabbia ed un blazer color carta da zucchero. La camicia ed il cappello, un panama, sono candidi. L'ascot riprende il colore dei pantaloni ed anche quello del nastro del cappello. Gli occhiali da sole con montatura in tartaruga, sono stati sapientemente scelti in pendant con la tonalità delle scarpe, messe in mostra dall'accavallamento delle esili gambe e con il cinturino dell'orologio al polso sinistro che poggia con nonchalance sull'impugnatura finemente intarsiata di un bastone da passeggio. Lo sto fissando anche io e sappiamo, che ognuno di noi sa, che ci stiamo fissando. Il volto coperto da una barba argentata di pochi centimetri e ben curata, si increspa in un sorriso. Un lieve cenno del capo ed il gesto della mano destra a mostrare ai miei occhi quello che fino al quel momento non riuscivo a vedere. Davanti ai miei occhi c'è il mondo e le persone che lo animano. Il silenzioso invito è ad alzare gli occhi da sé stessi lasciando perdere paure, insicurezze, paranoie e guardarsi attorno. Ogni persona, animale oppure oggetto è una storia da cogliere, da immaginare, da raccontare. Rivolta all'uomo di un'altra epoca ricambio il sorriso ed il cenno con il capo, quindi inforco i miei occhiali da sole e, nell'attesa, inizio a leggere la vita che sfila davanti ai miei occhi.
(continua)